mio papà è un influencer
la figlia dell’influencer

Mio papà è un influencer. Non credo che lo sappia né che, nell’eventualità futura di acquisire questa consapevolezza di sé, ne andrebbe poi particolarmente orgoglioso.

Mio papà, suo malgrado, è un influencer, since 1949, anno che lo vedeva in fasce, a Napoli o Caserta, avvolto tra le braccia salde di una madre cintura nera di oliva ascolana (buon sangue marchigiano non mente). Essendo io nata 27 anni dopo, ho però difficoltà a stabilire un inizio certo per questa sua attività di influenza.

Può darsi che abbia preso piede già verso la metà degli anni ’60 quando, da bravo ragazzo della periferia romana, giocava a pallone nell’attuale area di piazza della Radio. Roba che a guardarla ora, intasata di traffico e di take away asiatici, parrebbe una follia.

Eppure sono abbastanza sicura che qualche passante, vedendogli stampato in faccia quel sorriso sicuro, bianchissimo, stretto nello sforzo della pallonata, debba aver pensato: chissà che dentifricio usa questo qua. Da lì a influencer è stato un attimo.

Peccato per mio papà non aver avuto un amico come Mark a spiegargli come va il mondo. Gli amici quella volta erano diversi. Ci facevi l’università insieme, a Medicina o Giurisprudenza, e neanche avevi whatsapp per passare la copia della prova scritta.

E invece l’account instagram di uno che, a volte, se ne va in giro con uno Stetson da cowboy in testa e ci si fa pure fotografare, spaccherebbe, davvero. Mio papà non ha instagram, però. Questo, a casa mia, si chiama spreco. Stiamo complottando tra fratelli per aprire un profilo fake a suo nome e gestirlo in autonomia, ma prevedo guai se ci dovesse scoprire.

Non volevo umiliarvi fin dall’inizio, ma forse è giunto il momento di fare un’altra confessione: anche mia mamma è stata un’influencer. A giudicare dalle foto che trovo sfogliando gli album di famiglia, la sua attività dev’essere però iniziata in epoca più tarda rispetto a quella del futuro marito. Il suo successo, tuttavia, vanta traguardi più rilevanti.

All’inizio degli anni ’70, infatti, mia mamma appariva come il perfetto distillato della moda dei suoi tempi: jeans a zampa, camicie fiorate, cinture di pelle color caramello piuttosto alte, strette a cingere un punto vita invidiabile. Occhialoni e foulard in seta avvolto tra i capelli completavano un outfit che avrebbe avuto oggi un sacco di repin su pinterest. Su instagram, poi, cuori e faccine che manco lo dico.

Un’aria snob tra le più snob in circolazione a Trieste (che è notoriamente tra le città più snob in Italia, in Europa e forse anche nel mondo) sopperiva perfettamente, sul viso di mia mamma, al broncio da selfie della nostra epoca. Ragazze che dividete il banco a scuola con mio fratello sedicenne, non avete inventato nulla, sappiatelo.

Le amiche di mia mamma, quella volta, ci devono aver dato dentro a tentare di riprodurre quel suo biondo tanto trendy. Chissà se ce l’hanno fatta. Io neanche ci provo, conscia dei miei limiti. In più a 41 anni non ho ancora capelli bianchi e, con la scusa di presunte dermatiti, preservo la chioma dalla tinta e il portafogli dal salasso mensile (alcune dicono quindicinale) del parrucchiere.

Purtroppo non sono sicura di avere sotto mano gli strumenti per seguire le orme degli influencer di famiglia. Mi permetto però di fare vanto di un episodio che, tutto sommato, potrebbe costituire il preludio a futuri successi online. Ve lo racconto subito, mi ci vogliono appena un paio di righe.

Un giorno di due anni fa una signora mi fermò in via del Corso per chiedermi dove avessi acquistato il mio cappotto vintage. Le risposi che, mi dispiaceva, ma non potevo aiutarla. Il cappotto, infatti, era di mia mamma (qui il breve storia triste ci sta da paura, vero?).

Quello che avete letto finora è ironico. Tutto questo post è ironico. Perciò non fate che andate a spulciare il blog alla ricerca dei miei errori di gioventù da influencer. Vi dico già che ci sono, così vi risparmio la fatica.

E in più evitiamo l’epic fail della signora che, convinta che Lercio proponga sul serio l’imbarco in stiva per i bambini pallosi, procede indignata alla denuncia del giornalista all’autorità pubblica. Il gomblotto non c’è.

A questo punto non mi resta che chiarire un’ultima questione: il mio lavoro. In pratica, se non sono un’influencer, chi sono? Che lavoro faccio smanettando tutto il giorno sullo smartphone e sulla tastiera del PC?

A casa non lo sanno o, almeno, non trovano le parole giuste per spiegarlo. Si limitano a sussurrare blogger a mezza bocca, suscitando inevitabili smorfie nei parenti interlocutori, curiosi di essere aggiornati in merito al radioso status lavorativo della consanguinea.

Questi, non appena afferrano la parola, scuriscono il volto e, nell’attesa speranzosa di una smentita che non arriva mai, iniziano a elaborare il lutto dell’anima persa. Era una bambina tanto intelligente.